martes, 7 de mayo de 2019

Venezuela: Guaidó, ruolo di Cuba ed effetti di Brasile e Messico



Carmine de Vito

L’Avana, Cuba: il Venezuela visto da qui non ha certamente il volto di Juan Guaidó. Dopo oltre due mesi dalla sua auto-proclamazione a presidente ad interim, le condizioni di vantaggio createsi con l’imponente sostegno mediatico e diplomatico esterno non appaiono più così solide; anzi.

Per Cuba, il Venezuela è il primo partner politico e commerciale. Le due economie sociali e produttive sono praticamente legate in un rapporto sinallagmatico: progetti sociali in cambio di risorse naturali, con più di ventimila cubani presenti in Venezuela nei diversi progetti tra cui ‘Buen vivir del paciente diabético’ (solo nel 2018, sono stati curati circa 11.000 bambini venezuelani utilizzando il farmaco cubano Heberprot-P) e le missioni ‘Barrio Adentro’ e ‘Milagro’ con oggetto cure di prossimità ed equità sociale.

È facile avvertire la preoccupazione a tutti i livelli; tutti ricordano quello che accadde nel 2002, nelle prime ore del colpo di stato di Pedro Carmona: l’Ambasciata cubana a Caracas fu assalita e tutte le strutture della cooperazione furono oggetto di una ignominiosa caccia all’uomo, perché ritenute il simbolo della deviazione politica chavista.

“Pedro el breve” durò meno di 48 ore: la mobilitazione de ‘los barrios’ riportò Hugo Chavez al Palazzo Miraflores. Determinante fu l’intervento di Fidel Castro, che diffuse da Cuba le dichiarazioni della figlia di Chavez, Gabriela, che denunciava il sequestro del padre e smentiva la sua rinuncia. Geniale fu l’idea dell’allora procuratore generale Isaias Rodriguez, costituzionalista e poi ambasciatrice del Venezuela in Italia, che, per aggirare la censura dei media, finse di dimettersi in una conferenza stampa, per poi denunciare il sequestro del presidente e fare un appello al rispetto della costituzione. Imprescindibile fu la reazione degli apparati fedeli a Chavez, che riscattarono il presidente e si unirono alla grande pressione popolare a suo favore.

Oggi è tutto diverso: non c’è né Fidel né Chavez; è cambiato tutto il contesto geo-strategico. La progressiva marginalizzazione della visione integrazionista e la vittoria dell’ultradestra di Bolsonaro in Brasile ha determinato, o ha dato un’opportunità, all’esperimento Guaidó.

Le due Amministrazioni

Non è un mistero che tra le tante ipotesi sul tavolo dell’Amministrazione Trump per arrivare a un superamento dell’esperienza bolivariana in Venezuela ci fosse quella delle ‘due amministrazioni’: lo si sapeva, ma non sussistevano le condizioni;  o, meglio, si stavano realizzando.

Bolsonaro s’insedia ufficialmente in Brasile il primo gennaio 2019 con un tamtam nell’area gonfio di revisionismo e rigenerati sentimenti anti-integrazionisti. Il 5 gennaio, l’Asamblea Nacional, dopo aver interrotto i negoziati condotti dall’ex premier spagnolo Zapatero, ritenuto troppo vicino al governo Maduro, elegge suo presidente Juan Guaidó, 35 anni, fino ad allora letteralmente sconosciuto; il 23 gennaio, Guaidó si autoproclama presidente e immediatamente partono le legittimazioni internazionali.

La spallata ‘tipo Ucraina’ non riesce, ma la partita internazionale sulla codificazione del multilateralismo o, meglio, sulla preservazione dell’ordine unipolare si sposta nel quadrante sudamericano, riproponendo il medesimo schema asimmetrico medio-orientale in salsa creola. Da una parte gli Stati Uniti e tutto il blocco conservatore sudamericano e dall’altra Russia, Cina, Cuba e le potenze regionali Messico, Turchia e Iran; l’Europa va in ordine sparso, con Regno Unito, Francia, Spagna e Portogallo che spingono per riconoscere Guaidó e l’Italia a sostenere una soluzione concordata e pacifica.

L’effetto Bolsonaro

La vittoria dell’ultradestra di Bolsonaro in Brasile cambia radicalmente gli equilibri politici nel continente. Il tratto originale di Bolsonaro sta nella sua capacità di mettere a sistema le diverse destre latino-americane, diverse per cultura e formazione sociale.

Il mix di retorica anti-marxista, populismo, predilezione divina e liberismo economico avvicina, conferendo unità politica a processi politici nazionali, come le destre tecnocratiche di Cile e Perù e la destra ‘uribista’ colombiana, isolazionista per definizione.

Questo nuovo allineamento culturale che va dagli Stati Uniti al Cile, ovvero da Trump a Piñera passando per Bolsonaro, non è tuttavia solidissimo come si palesa o come pretende di mostrarsi.

Il Messico di Lopez Obrador

Il neo-presidente messicano Andrés Manuel López Obrador (Amlo) ha immediatamente posto una condizione di principio al tentativo di riconoscimento internazionale di Guaidó: “La nostra politica è di rispetto per i governi e i popoli del mondo. Una politica di amicizia, neutralità, autodeterminazione, non intervento, cooperazione per lo sviluppo”.

Assieme al presidente uruguaiano Tabaré Vázquez, che agli inizi tentennava, si è rifiutato di riconoscere la legittimità di Guaidó, ritenuto un usurpatore, ma ha contestualmente richiamato le parti a una soluzione non violenta e dialogante, ottenendo numerosi dividendi politici.

Non ha esautorato il ruolo del Gruppo di Lima sulla crisi venezuelana, stigmatizzando le numerose criticità del governo Maduro, e allo stesso tempo non si è conformato all’asse Trump-Bolsonaro, aprendo un ampio spazio politico e di azione.

Strategico per storia e geografia, Il nuovo respiro messicano diventa centrale in un processo di mediazione: proposta che Guaidó ha seccamente rifiutato e che incontra la forte attenzione del Vaticano, in prima linea nella ricerca di una soluzione negoziata, e di Russia e Cina, che, giocando di sponda con il Messico, possono gestire i fortissimi interessi in Venezuela non in prima linea. La partita è aperta: nessuno forza perché sbagliare, anche una sola mossa, significherebbe compromettere la contesa, quindi perdere.

Gli scenari possono cambiare

Il ‘cambio’ in Messico testimonia la condizione di liquidità nei rapporti di forza nell’area. Se il governo Maduro resiste (finora l’impianto bolivariano nella sua dimensione civico-militare è rimasto pressoché intatto), da qui a breve si presenterà l’incognita Argentina: in ottobre si vota per le presidenziali in un clima di malcontento tra svalutazione del peso, inflazione e produzione agricola in forte tensione, con il ‘macrism’ in bilico e un possibile, mai sottovalutato, ritorno dell’ex presidente Cristina Fernández de Kirchner.

In Brasile, Bolsonaro deve passare dagli slogan ai fatti;  la crisi economica e sociale è inquietante, con il nord che ha votato per Lula, che, nonostante il c
arcere, conserva un consenso e un fascino importante. Tutto questo porta al 2020 e alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti.

Forse alla fine ci accorgeremo di quanta poca strada il deputato presidente Guaidó avrà fatto; non sarà ‘el breve’, però, ad oggi, rispetto a tutto quello che si muove, discutendo con Leyde Ernesto Rodríguez (vice rettore dell’Istituto Superiore di Relazioni Internazionali ‘Raul Garcia’ dell’Avana http://www.isri.cu/), rischia di essere ‘l’effimero’.






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