L’Avana, Cuba:
il Venezuela
visto da qui non ha certamente il volto di Juan Guaidó. Dopo
oltre due mesi dalla sua auto-proclamazione a presidente ad interim, le
condizioni di vantaggio createsi con l’imponente sostegno mediatico e
diplomatico esterno non appaiono più così solide; anzi.
Per Cuba, il Venezuela è il primo partner
politico e commerciale. Le due economie sociali e produttive sono praticamente
legate in un rapporto sinallagmatico: progetti sociali in cambio di risorse
naturali, con più di ventimila cubani presenti in Venezuela nei diversi
progetti tra cui ‘Buen vivir del paciente diabético’ (solo nel
2018, sono stati curati circa 11.000 bambini venezuelani utilizzando il farmaco
cubano Heberprot-P) e le missioni ‘Barrio Adentro’ e ‘Milagro’ con
oggetto cure di prossimità ed equità sociale.
È facile avvertire la preoccupazione a tutti i
livelli; tutti ricordano quello che accadde nel 2002, nelle prime ore del colpo
di stato di Pedro Carmona: l’Ambasciata cubana a Caracas fu assalita e tutte le
strutture della cooperazione furono oggetto di una ignominiosa caccia all’uomo,
perché ritenute il simbolo della deviazione politica chavista.
“Pedro el breve” durò meno di 48 ore: la
mobilitazione de ‘los barrios’ riportò Hugo Chavez al Palazzo
Miraflores. Determinante fu l’intervento di Fidel Castro, che
diffuse da Cuba le dichiarazioni della figlia di Chavez, Gabriela, che
denunciava il sequestro del padre e smentiva la sua rinuncia. Geniale fu l’idea
dell’allora procuratore generale Isaias Rodriguez, costituzionalista e poi
ambasciatrice del Venezuela in Italia, che, per aggirare la censura dei media,
finse di dimettersi in una conferenza stampa, per poi denunciare il sequestro
del presidente e fare un appello al rispetto della costituzione.
Imprescindibile fu la reazione degli apparati fedeli a Chavez, che riscattarono
il presidente e si unirono alla grande pressione popolare a suo favore.
Oggi è tutto diverso: non c’è né Fidel né Chavez;
è cambiato tutto il contesto geo-strategico. La progressiva marginalizzazione
della visione integrazionista e la vittoria dell’ultradestra di Bolsonaro
in Brasile
ha determinato, o ha dato un’opportunità, all’esperimento Guaidó.
Le due Amministrazioni
Non è un mistero che tra le tante ipotesi sul
tavolo dell’Amministrazione Trump per arrivare a un superamento dell’esperienza
bolivariana in Venezuela ci fosse quella delle ‘due amministrazioni’: lo si
sapeva, ma non sussistevano le condizioni; o, meglio, si stavano
realizzando.
Bolsonaro s’insedia ufficialmente in Brasile il
primo gennaio 2019 con un tamtam nell’area gonfio di revisionismo e rigenerati
sentimenti anti-integrazionisti. Il 5 gennaio, l’Asamblea Nacional, dopo aver
interrotto i negoziati condotti dall’ex premier spagnolo Zapatero, ritenuto
troppo vicino al governo Maduro, elegge suo presidente Juan Guaidó, 35 anni,
fino ad allora letteralmente sconosciuto; il 23 gennaio, Guaidó si
autoproclama presidente e immediatamente partono le legittimazioni
internazionali.
La spallata ‘tipo Ucraina’ non riesce, ma la
partita internazionale sulla codificazione del multilateralismo o, meglio,
sulla preservazione dell’ordine unipolare si sposta nel quadrante sudamericano,
riproponendo il medesimo schema asimmetrico medio-orientale in salsa creola. Da
una parte gli Stati Uniti e tutto il blocco conservatore sudamericano e
dall’altra Russia, Cina, Cuba e le potenze regionali Messico, Turchia e Iran;
l’Europa va in ordine sparso, con Regno Unito, Francia, Spagna e Portogallo che
spingono per riconoscere Guaidó e l’Italia a sostenere una soluzione
concordata e pacifica.
L’effetto Bolsonaro
La vittoria dell’ultradestra di Bolsonaro in Brasile cambia radicalmente gli equilibri politici nel continente. Il tratto originale di Bolsonaro sta nella sua capacità di mettere a sistema le diverse destre latino-americane, diverse per cultura e formazione sociale.
Il mix di retorica anti-marxista, populismo,
predilezione divina e liberismo economico avvicina, conferendo unità politica a
processi politici nazionali, come le destre tecnocratiche di Cile e Perù e la
destra ‘uribista’ colombiana, isolazionista per definizione.
Questo nuovo allineamento culturale che va dagli
Stati Uniti al Cile, ovvero da Trump a Piñera passando per Bolsonaro, non è
tuttavia solidissimo come si palesa o come pretende di mostrarsi.
Il Messico di Lopez Obrador
Il neo-presidente messicano Andrés Manuel López
Obrador (Amlo) ha immediatamente posto una condizione di principio
al tentativo di riconoscimento internazionale di Guaidó: “La nostra
politica è di rispetto per i governi e i popoli del mondo. Una politica di
amicizia, neutralità, autodeterminazione, non intervento, cooperazione per lo
sviluppo”.
Assieme al presidente uruguaiano Tabaré Vázquez,
che agli inizi tentennava, si è rifiutato di riconoscere la legittimità di
Guaidó, ritenuto un usurpatore, ma ha contestualmente richiamato le parti a una
soluzione non violenta e dialogante, ottenendo numerosi dividendi politici.
Non ha esautorato il ruolo del Gruppo di Lima
sulla crisi venezuelana, stigmatizzando le numerose criticità del governo
Maduro, e allo stesso tempo non si è conformato all’asse Trump-Bolsonaro,
aprendo un ampio spazio politico e di azione.
Strategico per storia e geografia, Il nuovo
respiro messicano diventa centrale in un processo di mediazione: proposta
che Guaidó ha seccamente rifiutato e che incontra la forte attenzione del
Vaticano, in prima linea nella ricerca di una soluzione negoziata, e di Russia
e Cina, che, giocando di sponda con il Messico, possono gestire i fortissimi
interessi in Venezuela non in prima linea. La partita è aperta: nessuno forza
perché sbagliare, anche una sola mossa, significherebbe compromettere la
contesa, quindi perdere.
Gli scenari possono cambiare
Il ‘cambio’ in Messico testimonia la condizione di liquidità nei rapporti di forza nell’area. Se il governo Maduro resiste (finora l’impianto bolivariano nella sua dimensione civico-militare è rimasto pressoché intatto), da qui a breve si presenterà l’incognita Argentina: in ottobre si vota per le presidenziali in un clima di malcontento tra svalutazione del peso, inflazione e produzione agricola in forte tensione, con il ‘macrism’ in bilico e un possibile, mai sottovalutato, ritorno dell’ex presidente Cristina Fernández de Kirchner.
In Brasile, Bolsonaro deve passare dagli slogan
ai fatti; la crisi economica e sociale è inquietante, con il nord che ha
votato per Lula, che, nonostante il c
arcere, conserva un consenso e un fascino
importante. Tutto questo porta al 2020 e alle elezioni presidenziali negli
Stati Uniti.
Forse alla fine ci accorgeremo di quanta poca
strada il deputato presidente Guaidó avrà fatto; non sarà ‘el breve’,
però, ad oggi, rispetto a tutto quello che si muove, discutendo con Leyde
Ernesto Rodríguez (vice rettore dell’Istituto
Superiore di Relazioni Internazionali ‘Raul Garcia’ dell’Avana http://www.isri.cu/), rischia di
essere ‘l’effimero’.
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